Quando 88 tasti e un sound unico sono nel dna .. racconto di una notte con Bollani e Company
di Ricky da Rock
Ho assistito numerose volte alle diatribe tra diverse fazioni di appassionati di musica. C’è chi predilige la capacità di eseguire con precisione valangate di note in una manciata di secondi. C’è chi ascolta la musica essenzialmente con la predisposizione alla “anima ‘e core” e c’è chi, in accordo con i criteri progressivamente imposti dagli standard televisivi, è interessato ad assistere ad uno show con piroette e saltimbanco. Difficile stabilire chi abbia ragione senza fare scivoloni nell’ambito del gusto personale ma è molto facile, per chi come me ha avuto la fortuna di assistere al concerto del Maestro Bollani a Monforte D’Alba, constatare che il virtuoso pianista abbia messo tutti d’accordo. Un viaggio attraverso le sonorità di Napoli raccontate alla maniera di Bollani, con ironia, giocosità e passione. Tre qualità che decisamente si sposano con l’essenza del capoluogo campano.
Da menzionare per il loro ruolo tutt’altro che secondario i compagni di viaggio: il “collega di conservatorio” Nico Gori, il partenopeo Daniele Sepe e l’eclettico batterista statunitense Jim Black. Suppongo che quando i nomi dei protagonisti sono quelli appena elencati sia superfluo focalizzare l’attenzione sulla qualità dell’esecuzione. Desidero invece soffermarmi su ciò che “passa” al pubblico. Una delle qualità di Bollani che ho sempre ammirato è la sua capacità di trasformare la musica in un meraviglioso gioco. Per quanto le esecuzioni richiedano, sul piano tecnico, una certa perizia, i suoi spettacoli tendono (anche grazie ad una non trascurabile dote recitativa) a catalizzare l’attenzione degli spettatori su una forma di espressione ben più ampia, quasi sempre in grado di strappare qualche sorriso. Ecco che la musica arriva direttamente a segno, anche quando sarebbe, allo stato “scondito”, mediamente più complicata da assorbire. Uno scambio di battute tra pianoforte e sax, composto da sequenze di note tendenzialmente dissonanti, diventa gradevole e divertente perché le espressioni delle facce lasciano intendere platealmente che la musica in esecuzione rappresenti una sorta di litigio tra comari dirimpettaie. L’ego dell’artista viene posto in secondo piano rispetto la fruibilità dell’opera. Il divertimento del pubblico lo appaga (e pertanto ha maggior valore) più del plauso alla sua bravura. Si crea in questo modo il veicolo per far coesistere i concetti di talento e spettacolo e fonderli in un’alchimia capace di raggiungere direttamente l’anima senza essere filtrata dai giudizi, spesso distorti, della testa. Si assiste poi ad intermezzi parlati dove il narratore, ora Daniele Sepe, invita il pubblico a non essere convenzionale: ridere, battere le mani, parlare, essere anarchico ed uscire da tutte quelle regole di etichetta imposte da una musica classica ormai agonizzante e vittima delle sue stesse restrizioni. Perché musica è giocare. Musica è passione. Si prosegue con fraseggi funambolici tra sax e clarinetto mentre Bollani e Black creano delle ritmiche saltando sul pavimento fatto di assi di legno. Ogni musicista ha il suo spazio interpretativo e ognuno gode letteralmente di ciò che fanno gli altri. Tutto questo arriva al pubblico dritto come un treno. Gli stili coi quali viene raccontata la musica partenopea sono svariati: dalle basi tradizionali ad un “imprinting” più jazzistico con strizzatina d’occhio a qualche variante blues (soluzioni sovente declinate nell’uso, da parte di Bollani, del Rhodes in sostituzione o in affiancamento al pianoforte). La batteria fonde con naturalezza sia il tradizionale approccio jazzistico che l’impiego di sonorità più “tribali” diventando assolutamente una voce del coro a tutti gli effetti. Una nota va assolutamente dedicata anche alla struttura ospitante, il meraviglioso anfiteatro, e al gusto e alla coerenza con i quali sono state scelte le coreografie (fatte di giochi di luce) e gli artisti, assolutamente in linea al contesto e al clima della manifestazione. Ma lo spettacolo si chiama “Napoli Trip” ebbene, cosa c’entra la canzone napoletana in tutto questo? Immaginate un caldo pomeriggio estivo. Un bambino di 5 anni raccoglie da un torrente un po’ d’acqua fresca per buttarla dispettosamente addosso al suo fratellone.
Il torrente è la canzone, il bambino è quel magico quartetto e il fratellone siamo noi spettatori.
La photogallery della serata di Music&theCity a cura di Letizia Reynaud