di Raffaele Ragusa
Robert Plant. Ero convinto bastasse scrivere queste due parole, il nome ed il cognome di uno degli dèi del rock, uno tra i più grandi frontman di tutti i tempi nonché una delle voci più ammalianti della storia della musica per scrivere questo articolo: cosa servirebbe dire su Robert Plant? Nulla. E avrei già finito. Invece, mi ritrovo ora ad essere più che convinto che quanto segue non sarà minimamente sufficiente per descrivere ciò che il cantante britannico è riuscito a far esperire alle 3.000 persone presenti sabato 26 agosto, all’Arena Alpe Adria di Lignano, nell’ambito di Nottinarena.
L’aspettativa per un progetto musicale senza album in promozione, senza sito web o presenza sui social network, con una band ed un repertorio sconosciuti, era alta.
Robert Plant ha sempre dimostrato di essere come molti vini, di quelli che più invecchiano (o maturano) e migliori diventano, ma ci sarà riuscito anche questa volta con una scommessa artistica che pare quasi un salto ad occhi chiusi? A giudicare dalle date sold out passate e dalla reazione enfatica del pubblico presente sabato sera, la risposta è indubbiamente sì.
Già dalla data precedente a quella di Lignano (il tutto-esaurito a Portorose, Slovenia), la curiosità e la pregustazione per un concerto fine, energico e toccante hanno iniziato a diffondersi anche oltreconfine grazie ai contenuti condivisi sui social network dai contatti che in un modo o nell’altro ognuno di noi ha; l’attesa era ora finita però, lo spazio era tutto per la musica.
Così, Tony Kelsey, il “Messia della chitarra” (come lo definisce Plant durante la serata) e Matt Worley salgono sul palco da soli, imbracciano rispettivamente chitarra acustica e banjo ed iniziano a suonare (i due imbracceranno nel corso della gig, poi, anche mandolini e un cuatro). Essi interloquiscono musicalmente tra loro fino a confluire nel riff di “Gospel Plow”, un brano della tradizione statunitense.
È su queste note che, poco dopo l’entrata in scena del batterista Oli Jefferson, un’imponente figura alta e slanciata, con uno chignon a legare la folta chioma (una volta) bionda, sale mestamente dal retro del palco, accompagnato, quasi per contrasto, dalla figura minuta e delicata di Suzi Dian, la giovane cantante che affianca Plant in questo gruppo.
Per diversi secondi, dopo, è solo boato.
Segue poi un altro brano della tradizione, “The Cuckoo”, che eleva ancor più l’intensità e l’elettricità della serata. Quasi senza soluzione di continuità, si giunge al primo brano del glorioso passato: “Friends”, da “Led Zeppelin III”.
Plant, con il suo sagace umorismo britannico, parla molto e racconta molte storie ed aneddoti, molti dei quali provenienti dalle misty mountains, come le chiama lui. Il quintetto procede poi con escursioni nel blues più tradizionale, citando “In my Time of Dying” dall’album “Physical Graffiti” nel bel mezzo di “Satan, Your Kingdom Must Come Down”: scelta sicuramente non casuale dato che il primo è l’unico pezzo nel catalogo degli Zepp ad invocare Gesù, in palese contrapposizione quindi con il soggetto del brano della tradizione Mississippi.
Dopo aver coinvolto il pubblico con un po’ di bluegrass eseguendo, ad esempio, “Everybody’s Song” dei Low, il tutto deliziato dagli assoli potenti ed evocativi di Kelsey alla chitarra elettrica baritona, era il momento di “canzoni forse un po’ pop, romantiche, tristi e molto serie”.
Era insomma, il momento di piangere.
E lo è stato. Il primo pezzo di questo insieme è introdotto da un racconto che spiega come fin da giovane, il cantante desiderasse cantarlo e di come finalmente ora abbia la possibilità di farlo; parte quindi il sempre attuale brano di protesta dei Moby Grape “It’s a Beautiful Day Today”. Suzi Dian prosegue poi con una cover commovente di “Too Far From You”.
Dopodiché, come un fulmine a ciel sereno, Percy decide di far diluviare sulla folla uno dei brani più romantici e musicalmente più intensi del rock, “The Rain Song”, da “Houses of the Holy” del 1973. Quando le ultime note di “The Rain Song” ancora risuonavano, il pubblico era già nel palmo della mano di Plant: con i suoi acuti ruggenti ha dato prova di possedere ancora lo stesso timbro e vigore vocale che lo contraddistinguono dalla fine degli anni ottanta.
Le cover successive erano meno romantiche e lente ma più movimentate e conturbanti.
Volgendo al termine del concerto si è passati quindi attraverso “Four sticks”, brano del 1971 in 5/4, “Let the Four Winds Blow”, “Down to the Sea”, “Chevrolet” rifacimento di “Hey Gyp (Dig the Slowness)” di Donovan, “House of Cards” ed “Angel Dance”.
Saliti sul palco per i bis chiamati a gran voce, Plant, Dian e gli altri hanno fatto letteralmente alzare in piedi tutta l’arena con un’esplosiva versione di “Gallows Pole”, ironico pezzo country di “Led Zeppelin III”, dopo il quale nessuno avrebbe voluto lo show finisse.
Quel momento, invece, doveva giungere ma Plant nascondeva ancora una perla con cui deliziarci: l’ultima canzone è stata eseguita a cappella da tutti i membri della band e ha dato la possibilità a Worley di sfoggiare le sue notevoli doti canore. Il pezzo si intitola “We Bid You Goodnight” ed è un antico brano tradizionale delle Bahamas portato poi in Scozia e sceso nell’Inghilterra rurale nella quale Plant è cresciuto. La delicatezza e la raffinatezza emozionanti di questo ultimo brano racchiudono tutta l’eleganza insospettabile che un gruppo così potente capace di far roteare teste, di far battere mani e piedi, di far agitare corpi e ballare per un’ora e mezza possiede.
Intervistato dalla stampa prima della data di Lignano, Robert Plant ha spiegato il motivo del nome dato al progetto Saving Grace (“Grazia salvifica”), sostenendo come egli si senta benedetto dalla musica di cui ha potuto far parte negli ultimi sessant’anni.
Mai nome fu più ambivalente: noi tutti dovremmo ritenerci graziati potendo assistere ad eventi di artisti simili.
I report di MusicAndTheCity.